Quanto sono contenta e fortunata di avere la fotografia nella mia vita, quanto sono fiera di me per il fatto di aver raccolto tutte queste immagini, ricordi di momenti certamente indelebili ma avere la foto che supporta le visioni già presenti per sempre nella mente e nel cuore, per me non smetterà mai di essere un dono prezioso. Ci sono stati momenti durante il viaggio in cui ho perso quasi la pazienza, in cui usare la macchina fotografica ha significato doversi prendere cura della borsa tutto il giorno, aprirla e chiuderla dopo aver preso la reflex per fare magari anche solo due foto. Durante le giornate passate in navigazione tra le isole ho dovuto maneggiarla con le mani un po’ bagnate o unte di crema solare, soffiare via qualche granello di sabbia dal corpo macchina e osservare con attenzione e sensi di colpa la lente dell’obiettivo un po’ sporca. Ho pensato non fosse il caso di usarla in certi momenti, ma non riuscivo a trattenermi. E ora penso ne sia valsa assolutamente la pena.
Il sole cocente, gli schizzi delle onde che sbattono sulla barca e la pelle sempre più nera sulle spalle, il vento caldo, avvolgente e sensuale, la voglia di vivere ogni istante fino in fondo, riempirsi gli occhi di quei colori e guardarli ancora e ancora per imprimerli bene nella mente, i colori del mare così nettamente distinti tra loro in quelle linee di confine tra il blu chiaro e il blu scuro, le voci intorno di lingue straniere, gli occhiali sporchi di salsedine, l’acqua della bottiglia ormai tiepida e ancora il caldo e il sole che batte senza sosta, la sabbia bianca che abbaglia così tanto che senza occhiali da sole è difficile guardare. Il vento ha increspato la superficie del mare ogni singolo giorno e un po’ mi dispiaceva non poter godere della visione di un mare completamente piatto. Ma adesso il pensiero di quel vento caldo mi fa sognare di ritrovarmi proprio lì, in mezzo alla spiaggia deserta con i capelli che ondeggiano e i granelli di sabbia che volano attorno. L’energia che ha sprigionato la sento ancora sulla pelle.
La bellezza che si presentava senza alcun filtro, non lasciava spazio a molte parole. Davanti a quei panorami, a quel mare caldo e dai colori innaturali, l’unica cosa che si poteva fare era tuffarsi. Ho ringraziato tante volte sottovoce durante il viaggio, ma mai mi sarei aspettata di ringraziare anche dei pesci. E invece così è stato. Mi nuotavano attorno sfiorandomi continuamente, era un valzer di colori e di allegria, il grazie attraverso il boccaglio è venuto da sè.
Le foto che ho fatto non possono descrivere la sfrontata bellezza che riempiva gli occhi onda dopo onda. Ma come una bambina non riuscivo a trattenermi in nessun modo dal provare a rubare un po’ di quella magica combinazione caleidoscopica di colori e sfumature, di riflessi e trasparenze cristalline.
Abbiamo visitato quattro isole quel giorno e trascorso una notte a Phi Phi Island. La mattina seguente salivamo sul traghetto che ci avrebbe portato verso l’ultima tappa: Phuket.
Se chiudo gli occhi e ripenso a Krabi sento ancora l’aria calda che mi ha accolta appena uscita dall’aereo. La prima immagine di Krabi che ho nella mente è il vasto spazio cementato del pavimento dell’aeroporto e in fondo alberi, alberi, verde intenso, un’immagine quasi sovraesposta, quasi bruciata da quel sole cocente. Nonostante portassi gli occhiali da sole facevo fatica a guardarmi intorno. L’aria era bollente, irrespirabile e io sentivo di aver trovato finalmente l’estate, quella che non dà tregua, che il viaggio quasi cominciava in quel momento.
I giorni a Krabi sono stati forse i più particolari. Ci siamo voluti fare un regalo e scegliere un resort di fronte alla spiaggia, con la piscina vista mare. Ma la spiaggia, lunghissima, scurissima, deserta, non aveva niente a che vedere con le spiagge e il mare che per me volevano dire Thailandia.
Marat è la ragazza thailandese, musulmana come la maggior parte degli abitanti in questa zona di Krabi, che si è presa cura di noi durante la nostra permanenza in questa parte assolutamente poco visitata e isolata, lontana da negozi, locali, alberghi. I bar più vicini erano in realtà locali che fungevano anche da abitazione, con dei tavoli in pietra davanti alla porta da cui si potevano spesso intravedere gli interni spogli. I pranzi e le cene molto semplici venivano cucinate da donne con il velo sulla testa e profondi occhi scuri.
Marat, conosciuta per caso sulla spiaggia appena arrivati, ci ha portato a pranzo il primo giorno con la sua moto adibita a tuc tuc e ad una festa la sera stessa.
Come descrivere le situazioni in cui ci siamo ritrovati? Forse non basta dire che noi due eravamo gli unici turisti presenti a questa sorta di spettacolo all’aperto, con un palcoscenico e esibizioni di quello che sembrava quasi essere un saggio di fine anno di qualche scuola, con un migliaio di persone di cui molte sedute su terriccio e erba secca, che non applaudivano mai (!). Forse non basta dire che abbiamo assistito ad una gara di quelle che chiamare barche sarebbe un atto di coraggio, da quella stessa lunga e nera spiaggia, in quel tratto strapiena di conchiglie, sotto un sole assurdo. Forse non basta dire che più volte siamo stati fermati per essere ritratti nei selfie di alcuni ragazzi che ci guardavano con aria stranita, sempre sorridenti e gentilissimi e che a tutti i costi volevano fare una foto con noi.
Tornare la sera nella nostra bellissima camera con aria condizionata mi faceva quasi stare a disagio. Ma non mi soffermo sulle sensazioni, non le saprei raccontare.
In certe situazioni ho fatto foto solo con il cellulare, mi è sembrato più discreto, quasi più rispettoso. Per me era assurdo e divertente ma per loro era normalità e come tale non volevo che la loro vita mi sembrasse strana.
Volevo solo capissero quanto apprezzassimo e fossimo grati di quello che facevano per noi.